martedì 29 novembre 2016

La morte di Fidel Castro. Intervista al direttore dell'Istituto Gramsci, Silvio Pons

“L’alone mitologico che circonda la figura di Castro dev’essere dimensionato al suo profilo storico più autentico, nel quale si incrocia la realtà di un ruolo globale effettivamente svolto tra gli anni Sessanta e Settanta insieme all’incapacità di comprendere i cambiamenti che si realizzarono in America Latina e nella comunità internazionale dagli anni Ottanta in avanti”. Con Silvio Pons, presidente della Fondazione Istituto Gramsci e tra i principali studiosi italiani di storia globale del XX secolo, discutiamo di una figura centrale della storia e dell’immaginario del Novecento.

Cosa intendiamo davvero quando parliamo di «castrismo»?
Il castrismo nasce all’incrocio di tre direttrici del tutto diverse. Da una parte il contesto di lungo periodo del nazionalismo latinoamericano di matrice antistatunitense, che precede largamente la presa del potere del 1959 e che è privo di connotazioni marxiste o comuniste. Dall’altra la grande ondata politica e culturale del terzomondismo, ovvero l’idea che il cambiamento principale che seguì la fine della Seconda Guerra Mondiale fosse rappresentato dalla fine del colonialismo declinato in chiave di ideologia antimperialistica. Il terzo contesto è quello della Guerra Fredda, dentro la quale la rivoluzione cubana si trova a muoversi oscillando tra i due magneti del nascente movimento dei non allineati e dell’attrazione verso il polo sovietico.
L’incrocio tra queste tre direttrici produce una evoluzione radicale della rivoluzione cubana, promossa da un gruppo dirigente dove in origine il marxismo era un elemento marginale (rappresentato ad esempio da Guevara) che trasforma in movimento comunista quello che inizialmente era solo un movimento nazionalista.

Tra le principali tappe della vicenda storica della Cuba di Castro la cosiddetta «crisi dei missili» del 1962 ha un posto di primissimo piano.
Sì, perché quella crisi appare ancora oggi un momento fondamentale nella storia della Guerra Fredda. Ricordiamo che Castro si avvicina a Mosca in base a considerazioni di Realpolitik: dopo il tentativo di invasione statunitense del 1961 alla Baia dei Porci, Fidel cercò immediatamente la protezione militare sovietica. E al contempo utilizzò la disponibilità dell’URSS a dislocare batterie missilistiche nucleari per enfatizzare il ruolo di Cuba come perno di una rivoluzione anticoloniale globale e avanguardia della lotta antimperialista contro gli Stati Uniti. Mosca, d’altra parte, vi vide la possibilità di un vantaggio strategico su Washington in anni cui l’Unione Sovietica si trovava in una condizione di grande inferiorità militare e industriale. In quelle settimane Nikita Chruscev giocò una doppia scommessa, rivelatasi poi fallimentare: aprì un braccio di ferro con gli Stati Uniti che avrebbe potuto comportare un conflitto nucleare che lo stesso Chruscev non voleva (avrebbe rotto con Mao Zedong perché convinto che il socialismo non avesse bisogno di una terza guerra mondiale per trionfare, come invece sosteneva il leader comunista cinese) e fu poi costretto a fare marcia indietro, ritirando missili che Castro voleva fortemente nonostante la rigida risposta statunitense. In quei mesi Mosca e l’Avana furono vicini alla rottura, mentre Castro si sentì utilizzato come una pedina nel grande gioco della Guerra Fredda proprio come prima di lui era capitato alla Jugoslavia di Tito subito dopo la Seconda Guerra Mondiale. Alla fine Castro si adeguò alla cautela di Mosca, senza rinunciare a perseguire un suo disegno internazionalistico dapprima in America Latina e poi in Africa.

Possiamo dunque sostenere che la Cuba castrista provò a giocare un ruolo globale in proprio dentro la partita più grande della Guerra Fredda?
Certamente sì. Il primo tentativo si realizzò in America Latina, con l’esportazione del modello guevarista di gruppi armati impegnati a far sollevare le masse contadine. Un tentativo dapprima osteggiato dai partiti comunisti locali, fedeli a Mosca, e poi risoltosi in un fallimento generale perché i contadini non ne volevano proprio sapere di seguire i gruppi armati. La scommessa riuscita fu invece quella africana, in particolare in Angola subito dopo la fine della dittatura portoghese nel 1974 e il crollo dell’ultimo impero coloniale europeo. Castro scelse di inviare decine migliaia di soldati in sostegno del movimento guerrigliero marxista MPLA (oggi sappiamo che i sovietici non ne furono informati) e contribuì in modo determinante alla sconfitta delle truppe sudafricane che avevano invaso l’Angola. Andò invece diversamente nel Corno d’Africa nel 1976-1977, dove d’intesa con i sovietici, i cubani intervennero per sostenere la sanguinaria dittatura rossa di Menghistu. Negli anni Settanta Castro riesce ad assegnare a Cuba un ruolo globale assai più grande della dimensione reale del suo regime, marcando spesso un’autonomia da Mosca attraverso l’uso politico dell’internazionalismo antimperialista.

Eppure il rapporto con Mosca si incrina proprio quando l’Unione sovietica prova a riformarsi.
La perestrojka segna una frattura profonda tra Mosca e Cuba, perché Castro non riesce a leggere i cambiamenti in atto nel mondo e nella stessa Unione sovietica. Per lui Gorbaciov è solo un revisionista che abbandona la fondamentale battaglia internazionalista (l’incontro tra i due leader all’Avana nell’aprile 1989 fu dominato dal gelo), mentre il grande cambiamento democratico in atto in America Latina lo coglie del tutto impreparato. Non è un caso che proprio in quei mesi la repressione del dissenso interno raggiunga un nuovo apice (si ricordi il processo farsa contro il Colonnello Ochoa), proprio come avveniva nei paesi dell’Europa centrorientale più conservatori come la DDR e la Cecoslovacchia. Castro diventa definitivamente, già allora, il testimone di un’epoca definitivamente conclusa.

Come spiega la tenacia del mito castrista presso alcune parti della sinistra europea?
La forza del mito è legato alla stagione del terzomondismo internazionalista, e dunque all’illusione di un comunismo più movimentista. La sua resistenza, giunta perfino a giustificare l’autoritarismo di Chavez, non tiene però conto dei grandi cambiamenti avvenuti dal 1989 in avanti ovunque in America Latina.

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